venerdì 30 aprile 2010

Dove è il mio metronomo?



Ieri sera avevamo a cena mia nipote sedicenne ed il suo fidanzato diciottenne. Ecco, ieri è stata la prima volta che ci ho pensato. Ho pensato che anche io ho avuto sedici anni e che adesso ne ho trentanove e come ha fatto tutto questo tempo a passare così in fretta, senza che neanche me ne accorgessi. Come ho fatto io a non prenderlo e rallentarlo un po’, tirarlo con una fune o soffermarmi su tutto questo tempo. Qualcuno poteva pur dirmelo “Ehi tu guarda che tra poco, pochissimo, in men che non si dica, avrai 39 anni”. Forse sarebbe stato diverso, forse no, in effetti se qualcuno mi dicesse oggi che tra poco avrò 62 anni gli riderei in faccia. Ma porca puttana potrebbero almeno darmi un metronomo della vita così da scandire meglio tutti questi secondi e minuti e ore e giorni e settimane anni decenni. Scandire ogni passo ogni emozione ogni buongiorno e buonanotte.
Ho cercato di carpire qualche novità generazionale, per vedere se davvero questi giovani d’oggi sono diversi, migliori, peggiori. La musica, lo stile di vita, gli orari, i cibi, le droghe, gli amici. A me sembra uguale. Piacciono i Prodigy, che sono una versione attuale dei Chemical Brothers, eppure è giusto. È giusto che anche questi giovani abbiano i loro Chemical Brothers e i loro REM e i loro Claudio Baglioni, uguali, ma un po’ diversi da quello che ascoltavamo noi. È giusto che anche un diciottenne dica “Quando ero piccolo, invece adesso che sono grande”. D’altronde anche i miei bimbi che non vanno ancora a scuola dicono “Quando ero piccolo”. È giusto che abbiano la loro versione dei nostri bermuda da ciclista, che adesso reputo orribili, degli stivali camperos, dei jeans da cugi, degli orecchini di plastica fosforescente a forma di forbici, dei capelli corti davanti e lunghi dietro, dei chewing gum a sigaretta nel pacchetto da sigarette che dopo un minuto che li masticavi diventavano duri come un pezzo di corteccia eppure avevano un sapore unico, delle polo con quel cazzo di buco che ti rubava un po’ di caramella, della girella che la morale è sempre quella, del Ciao con la marmitta truccata, del Bravo, del costume scosciato e del reggiseno a fascia che invece ora sono tutti a vita bassa, dei concerti, della scuola, delle assemblee, dei cortei.
Però sto ancora cercando il mio metronomo.

mercoledì 28 aprile 2010

Modi di dire



Non ho mai pensato di ammazzare il tempo, ne ho sempre così poco che preferirei piuttosto moltiplicarlo che ammazzarlo. Al massimo ho cercato di ingannarlo, per farlo passare quando c’era il rischio di annoiarsi, ma anche di allungarlo quando avevo troppe cose da fare, cosa quest’ultima che mi è sempre riuscita più difficile.
Certo che ad essere pignoli, a cercare il pelo nell’uovo insomma, il tempo è quello che è, passa un po’ come gli pare.
Anche se non ho mai capito perchè si dice “avere il pelo sullo stomaco” intendendo “essere senza scrupoli” o “essere portati a fare cose schifose”; forse perchè l’idea di avere un pelo sullo stomaco fa davvero schifo, come quando mangi la minestra e te lo senti in bocca che non va né su né giù e poi finisci per tirare fuori dalla gola un capello di venti centimetri. Roba da vomitare. Come se tu avessi un pelo sullo stomaco, appunto.
Per non parlare di chi ha il sale in zucca e chi non ce l’ha. Sarà perchè il sale era qualcosa di prezioso un tempo. Ed è forse per lo stesso motivo che da noi la pasta senza sale è “sciocca”, ed una persona un po’ scemina la si può addirittura definire “dolce”. Si vede che era più facile trovare lo zucchero del sale.
Spero comunque di non dover mai cercare un ago in un pagliaio. Non che ci siano molti pagliai in giro, ma sarebbe come trovare una lente a contatto su una pista da sci, che poi è la traduzione moderna dell’ago in un pagliaio. Mi verrebbe davvero un diavolo per capello, anche se nella marea di capelli che ho non si noterebbe nemmeno, sarebbe come una goccia nel mare.
O, come si dice a Livorno dove la gente è nota per la sua finezza, sarebbe come “piscia’ in mare”.

lunedì 26 aprile 2010

Campagna



A me non esalta la campagna, preferisco il mare o la montagna, anche se le riconosco una certa identità. Quando ci conoscevamo da poco, mio marito buttava le bucce della frutta ed i resti di cibo nell’acquaio. Mi spiegò che lui è nato in campagna, dove gli avanzi del piatto non si buttano, ma si mettono da parte per polli e conigli. Che in effetti divorano tutto, anche la buccia del cocomero, e la riducono ad una soletta verde di non più di un millimetro. Ci si potrebbe fare un ombrello. Comunque, non avendo galline, si è rassegnato a buttare tutto nella spazzatura o al massimo nel secchio del compost.
La campagna resta comunque un mondo a sè. Anche durante la guerra, si è ritagliata un angolino di pace dove i cittadini come mia nonna andarono sfollati. Mio suocero mi racconta che non soffrirono la fame, o l’invasione, o i bombardamenti. Che uccisero, conservarono e mangiarono un maiale per paura che i tedeschi se lo portassero via. Che da bimbetto, seduto su una mucca, con le sorelle, vide arrivare gli americani e temette il peggio “Vai ci siamo”, invece gli regalarono un chewing gum.
Ieri pomeriggio, dopo una mattinata al mare, siamo andati anche noi in campagna. Ai bimbi piace, tra lucertule, lombirichi, fiori, pezzi di legno, cani, ruscelli e scarabei, non c’è da annoairsi. Io ho cominciato a starnutire, e lacrimare, e soffiarmi il naso. Con gli anni ho sviluppato questa allergia non so bene a cosa. Al polline. Ai pini. Alla polvere. Chissà.
Una bella rottura.

mercoledì 21 aprile 2010

Chissà com’è

Chissà com’è avere il posto fisso. No, non dico il contratto a tempo indeterminato, quella è un’altra cosa, dico proprio il posto fisso, quello sicuro, per tutta la vita, fino alla pensione, finché morte non ci separi. Partire da casa con la merenda e gli spiccioli per il caffè, entrare ed essere sicuri che nessuno ti pagherà PER ANDARTENE, per smettere di lavorare. Che assurdità. Nessuno ti prenderà da parte e ti inviterà nell’Ufficio del Personale (del Padrone) convincendoti con varie manovre psicologiche che è meglio prendere il malloppo e firmare la tua lettera di licenziamento. Nessuno cercherà di trasferirti a centinaia di chilometri da casa, con la scusa della crisi globale o dell’efficenza locale. Anche se tu hai sempre lavorato con impegno contribuendo secondo le tue capacità al sostentamento dell’azienda.
Chissà com’è.
Forse non è niente. Forse ci si fa l’abitudine e si finisce per lamentarsi comunque di qualcos’altro, magari dell’orario di lavoro o dell’assenza di parcheggio interno. Forse si è talmente raccomandati da poter contare su ulteriori raccomandazioni per un posto migliore, più in alto, maggiormante retribuito, e sempre fisso.
Io non lo so com’è.

venerdì 16 aprile 2010

Lo scaldapotte



“Trattasi di giovane virgulto dalla parlantina sciolta, dotato di rara sensibilità e capacità d’ascolto che, sistematicamente, diventa il miglior amico delle Fie che si vor trombà, dando luogo al fenomeno di tener in caldo la potta in questione per gli amici e conoscenti che ne approfittano esibendo ben altre doti di seduzione o capacità amatoria” Un amico scaldapotte

Ti si avvicina con occhio comprensivo, soprattutto nei momenti in cui appai triste, preoccupata, sola. Difficilmente lo fa in pubblico, approfitta di momenti o situazioni solitarie, ad esempio una cena tra amici in cui per un attimo resti isolata in un angolo del divano. Parte con domande generiche: come va? Ti diverti? Cosa stai facendo? E poi si sa, le donne parlano, adorano parlare. E loro, gli scaldapotte, ascoltano, annuiscono, consigliano. Alcuni sono sinceri, la loro indole è davvero comprensiva e portata all’ascolto. Alcuni sono falsi, ti approcciano con frasi banali e scontate, del tipo che se ti vedono in libreria che stai comprando un romanzo esclamano “Ah, capisco che ti piace legger romanzi!”. Cazzo che intuito. Questi individui, facilmente smascherabili, cercano comunque di approfittare dei momenti di scoramento femminile per trarne vantaggi solitamente sessuali. Mentre i primi, sinceri e genuini, si prestano ad amicizie profonde e duratore. Purtroppo spesso si verifica la situazione in cui lui è innamorato, lei lo vede solo come amico, o viceversa. Non si pensi comunque che gli uomini con diverse capacità seduttive, i play boy, abbiano una maggiore probabilità di successi. E’ solo che si vantano di ogni singola conquista in modo smisurato tacendo invece sui numerosi fallimenti, mentre lo scaldapotte, di animo sensibile, si tiene generalmente per se’ la sensazione di un amore acquisito ed, al contrario del “conquistadores”, si psico-analizza ed interroga gli amici per comprendere i motivi di un eventuale rifiuto da parte dell’oggetto dei suoi sentimenti.
Categoria a mio avviso assolutamente singolare è invece lo scaldapotte segaiolo, che passa attraverso la riflessione per arrivare all’eccesso dell’interrogarsi sulle ali dei moscerini; si fa le seghe mentali appunto. Finisce che poi, a furia di seghe mentali, difficilmente troverà una compagna e finirà per farsele per davvero, le seghe, e non solo mentali.

mercoledì 14 aprile 2010

Felicità e disallineamenti

Che cosa è la felicità? Qualcuno sostiene che siano attimi, momenti brevissimi di estasi, orgasmi, enfasi momentanee, gioie di minuti. Altri pensano che sia invece uno stato d’animo, qualcosa di più vicino alla serenità, alla pace con se stessi e col mondo. Forse non è nessuna delle due cose, o forse entrambe. Si può provare la gioia di un attimo se non si è almeno sereni? O viceversa sentirsi contenti se non si hanno ogni tanto dei picchi di estasi? Può la soddisfazione di un momento riempirti la giornata se il tuo stato d’animo è depresso? Forse esiste una soglia minima a cui aggiungere dei picchi che spezzano la monotonia, per sentirsi davvero felici. Probabilmente è tutto soggettivo.

Stamani la giornata è iniziata in modo strano. Non sono riuscita a far partire lo scooter, non ho premuto il solito pulsante rosso che attiva il motore, come faccio ogni mattina. Erano quasi le sei e 10 quando ho buttato giù dal letto mio marito, il casco in mano, e l’ho fatto scendere in strada in pigiama e ciabatte, per poi sentirmi dire che bastava premere il solito pulsante rosso. A cosa stavo pensando? Cosa mi ha allontanato dai soliti collaudati automatismi del mattino? “Grazie marito”. Con uno scatto finale di corsa alla stazione sono riuscita a prendere il treno delle 6,20, senza timbrare il biglietto. Ho deciso di scriverci sopra la data a penna, per risparmiare il tempo della timbratura. Col fiatone, spossata, ho pensato “Ieri era 13, oggi 14, perfetto” ed ho scritto 13/4/2010. Ma sei scema? Ci pensi e sbagli? Che cosa ti distrae? Non me ne sono accorta subito. Ho visto arrivare il controllore, ho preso il biglietto, mi sono resa conto dello sbaglio ed ho deciso di correggerlo. A questo punto era anche svanito un eventuale effetto sorpresa che poteva convincere il controllore della mia buona fede. Cazzo! Ma lei è passata senza chiedere i biglietti. Mi sono sentita sollevata. Non pensavo neanche di riuscire a prendere il bus delle 6,39, invece altra corsetta ed eccomi lì. Mi ha ovviamente avvicinata il solito tipo in giacca FS a chiedermi se avevo un biglietto in più, che ovviamente non mi avrebbe pagato e che ovviamente sarebbe stato motivo di discussione. “No”.
Bene, sembra che tutto si sia allineato di nuovo. Ci voleva un matto.

giovedì 8 aprile 2010

Stuck



Sarei saltata sulla prima moto che passava zizzagando tra le macchine, piuttosto che stare lì ferma in auto in galleria, una coda di macchine mute a fari spenti, un serpente silenzioso e addormentato per più di un’ora. Ho provato ad ingannare il tempo con i passatempi sul cellulare, per poi preferire altre attività: fare allungamenti, grattarmi, guardare i vicini di auto, sbirciare le loro piccole attività del momento e le loro espressioni contingenti, notare che la tipa dell’auto accanto era come congelata al volante, che quello davanti leggeva il giornale e che qualcuno più in là si scaccolava per poi arrotolarle con le dita e lasciarle cadere sul tappetino della macchina. Avrebbe potute tirarle alla tipa congelata per smuoverla un po’, dico io. Ho di nuovo preso il cellulare e, scorrendo la rubrica, ho cancellato tutte quei nomi che non riuscivo a collegare a persone conosciute. Chi è Emanuela? E Kevin? Ho pensato che avrei potuto avere un attacco di panico, o una crisi claustrofobica; ho provato un desiderio irrefrenabile di aprire la portiera, accostarmi alla parete della galleria, accucciarmi a fare pipì e ammirare quel rigolo liquido scivolare e avvicinarsi ai vicini di auto. Sarebbe stato un grande sollievo!
Avrei potuto chiacchierare con qualcuno, chiedere dove vai, a che ora sei partito, sei arrabbiato annoiato o indifferente.
Alla fine ci ho messo più di quattro ore per arrivare a Genova, da Livorno. Era stato un furgoncino carico di pesce a ribaltarsi e scaricare per strada il suo carico scivoloso, bloccando l’autostrada per tutto quel tempo.
A mensa, ovviamente, nasello.

venerdì 2 aprile 2010

Soprannomi



La forza di un soprannome è quella di richiamare caratteristiche fisiche o caratteriali di una persona, di riuscire ad identificarla anche senza saperne il nome o senza averla mai vista. All’Università avevamo Occhi Pallati, Bello culo e Voglia di Topa Bionda. Quest’ultimo era un insegnante che aveva un ciuffo chiaro in evidenza da un lato della sua testa nera. Sarebbe un peccato avesse perso con gli anni o con lo sbiancare dei capelli quella strana caratteristica che lo contraddistingueva tra decine di altri prof.
Devo ammettere che anche io ho avuto parecchi soprannomi: Cugino Hit, quando portavo i capelli lunghi e li usavo come perfetto nascondiglio se mi scappava da ridere, Mammina perchè già prima di essere mamma mi preoccupavo delle abitudini alimentari e dell’abbigliamento dei miei amici, e Cioco Blocco, per le mie innate capacità nella Dance Music. Quando ho scoperto che mio marito era chiamato Piddu dagli amici di sempre, e gli ho chiesto una spiegazione, lui mi ha risposto “Piddu Ginu il contadino”, che a me sembra più una filastrocca che una motivazione. Ma i soprannomi sono come le barzellette, se te li fai spiegare perdono il bello. E allora ascolto e basta quando mia nonna mi racconta della Ciucia di Venezia, della Zizzi e del su’ figliolo, e di Ciccia Nera, che poi sarebbe il mio babbo.