mercoledì 25 febbraio 2009

Bilancio

Che cosa mi mancherà

La mia casa, il suo giardino.

Le mie amiche mamme con cui parlo e rido ai giardini dopo l’asilo, con cui ci aiutiamo guardando i bimbi a turno nel caso che una di noi debba andare a prendere un fratellino o fare una commissione, le mie amiche con cui compriamo merende collettive per tutti, pacchi di coriandoli per tutti, ghiaccioli per tutti; le mie amiche un po’ sposate un po’ no, un po’ ansiose un po’ no, un po’ tatuate un po’ no.

I miei percorsi, dal lavoro all’asilo ai giardini alla piscina, le mie abitudini.

Il mio Open Space di soli uomini, dove essendo da sola sono la più bella (ma anche la più brutta), la più alta (ma anche la più bassa), la più bionda (ma anche la più mora), e sicuramente la più coccolata. Vuoi mettere lavorare in un ufficio di donne inacidite dalla tintura per capelli e dalla manicure?

I nonni genovesi e la zia, che ci hanno adottato con grande affetto aiutandoci nei momenti difficili, nelle influenze, nei piccoli incidenti dei bimbi.

Il pesto di nonna Rina.

Il centro storico, con i vicoli stretti e le case arrampicate.

La nave bus da Pegli al Porto Antico, il Festival della Scienza, Camogli, San Fruttuoso, Arenzano.

Le partite di pallanuoto dei martedì estivi.

Che cosa non mi mancherà

Il mugugno. Dovrebbero metterlo di nuovo a pagamento, così forse ci penserebbero prima, questi genovesi, a lamentarsi tanto: dei soldi, quando ne hanno tanti, del lavoro, quando sono impiegati, degli amici, quando gli sono accanto.

Le acconciature che le mogli genovesi fanno ai loro mariti; se ti fai tagliare i capelli da tua moglie e lei non è parrucchiera, si vede!

Andare al mare a Genova: alle 7.30 del mattino i parcheggi sono già tutti pieni, c’è coda in autostrada e le spiagge, per lo più private, di odiosi sassolini da fachiro, sono affollate di piemontesi e milanesi venuti e mettere le palle al fresco.

Le bistecche genovesi; quelle non sono bistecche, sono fettine!

Tutto questo cemento sporco di smog.

I negozianti genovesi, che alle 19.20 ti chiudono la saracinesca sulla testa.

martedì 24 febbraio 2009

Questioni di etica

Da neolaureata ho avuto due offerte di lavoro contemporanee. Una a dieci minuti da casa in bicicletta, l’altra a 200km da casa, in un’altra città completamente nuova per me, dove poi ho vissuto inizialmente da sola. La prima offerta veniva da una ditta che produceva armi; il direttore del personale, interessato alla mia tesi sul controllo dei processi, mi ricevette subito dopo il colloquio tecnico. Fu molto chiaro e schietto nel descrivermi l’attività unica di quella azienda, tecnicamente interessante, ma obiettivamente legata al mondo bellico e militare. L’altra offerta, che alla fine accettai, era altrettante interessante, anche se sinceramente l’ufficio del personale fu molto meno sincero con me circa l’attività che avrei svolto in seguito. Due offerte economiche equivalenti, ovviamente la seconda portava con sé degli extra-costi (affitto, viaggi di rientro nel fine settimana, distacco affettivo) che avrei dovuto affrontare.
Non mi pento assolutamente della mia scelta e del percorso che mi ha fatto seguire. Anche perché più che una scelta razionale fu una scelta intestinale. Le parole non sono quasi mai a caso, e capii allora cosa significa “obiezione di coscienza”; è proprio la mia coscienza, un altro io imperante dentro di me, che mi costrinse a dire no, una voce più forte che mi disse che non sarei mai stata soddisfatta del mio lavoro alla sera, tornando a casa, e figuriamoci poi in un futuro con dei figli a cui decidi di parlare della tua attività (la mamma è bravissima nel puntamento, hanno testato i suoi progetti ed uccidono benissimo).
Adesso che lavoro in un settore civile, non posso essere sicura al cento per cento che la mia attività non venga talvolta impiegata per scopi bellici. D’altronde, anche uno che produce bottiglie non può garantire che qualcuno non ne usi una per spaccare la testa a chi gli sta sui coglioni. Ma se avessi accettato l’altra offerta, quella vicino casa, sicuramente avrei progettato armi.
Ora, non condanno gli impiegati di ditte belliche, eppure ci sono cose che non capisco. La coerenza. Conosco cattolici dalla nascita, praticanti, o almeno così dicono, che lavorano lì. Ha un senso? Ha un senso predicare di porgere l’altra guancia e di amare gli altri più di te stesso, e poi accettare attività di un certo tipo? Non so, poi ci sono mille condizionamenti, la famiglia, lo stipendio. Lungi da me la volontà di essere giudice, io che già mi arrovello nel pensare che forse preferirei qualcosa di totalmente distaccato da qualsiasi possibilità militaresca, che so l’insegnamento o una giostra per bimbi, così da avere totalmente la coscienza a posto, sentirmi totalmente coerente con i miei pensieri e con il mio io assolutamente non violento, assolutamente pacifista, assolutamente “ju”.

Eppure, mi dico poi, anche i professori possono insegnare la guerra.

giovedì 12 febbraio 2009

Ma che ci vado a fare

Ma cosa ci vado a fare in montagna d’inverno? Mi aspetta un viaggio di ore in una macchina nauseante, con una valigia tra i denti ed un’altra sotto il culo. All’arrivo, un freddo becco ed uno splendido manto bianco e nevoso. Per affrontarlo però ti servono mutandoni di lana, tuta impermeabile, guanti, cappello. Poi ti metti ai piedi delle cose rigide di plastica e provi a sciare. Centinaia di altri sciatori sfreccianti ti convincono che è meglio una pausa in un fantastico rifugio. Prima ti dirigi a fare pipì. Il bagno però è nel sottoscala, quelli del rifugio ti danno le chiavi, sfrecci nel sottoscala con rischio scivolata, raggiungi il bagno, apri. Dentro un puzzo di merda allucinante che ti invita a non chiudere quella finestrella aperta in direzione monte, quella stessa finestrella che abbassa la temperatura interna della stanza a -2 gradi. Il bagno è ovviamente alla turca, abbassi la tuta pregando il santo degli sciatori che le bretelle non si infilino nell’acqua del cesso (che il solito santo non fa mai congelare contro tutti i principi base della fisica e della termodinamica, sarà forse la merda calda?), ti si congela il culo, ma tu riesci lo stesso a fare pipì.
Alla sera ti ribolle la faccia, tutta a parte la zona occhiali, che a fine settimana sarà marcata di bianco, a contrasto con tutto il resto del viso quasi completamente ustionato. Non ne puoi più, ti sdrai sul divano, e ti invitano ad una fantastica cena a base di polenta e salsiccia. Ne faresti volentieri a meno, si, andresti a letto, ma accetti. Accetti perché domani dopo aver mangiato tutta quella polenta potrai essere tu, si proprio tu, a cacare in quel bagnetto, a renderne l’aria irrespirabile, ad aprire la finestrella infernale e a far congelare il culo a quello dopo di te venuto lì solo per fare pipì.
Sono soddisfazioni.

mercoledì 11 febbraio 2009

Carnevale



Trovo la vita aziendale a tratti carnevalesca. È un piccolo mondo di valori alterati, talvolta ribaltati. Ad esempio, essendo l’ambiente prettamente maschile, le poche donne sono altamente rivalutate. Se una è appena decente, agli occhi di tutti appare una stratopa. Il guaio è quando esce, passa il badge, e pensa che l’effetto rimanga. Eppure si sa, il mondo è relativo, e fuori sarà una tra le tante, o addirittura bruttina. Analogamente per gli uomini, alcuni che godono di posizioni dirigenziali, appaiono bellissimi agli occhi di alcune donne, che non notano invece la pancetta e la totale incapacità, in alcuni casi, di sostenere una conversazione brillante in pubblico o con gli amici.
Il fenomeno più devastante l’ho notato durante l’Open Day organizzato dalla mia ditta. Perché si sa, molti qui dentro hanno l’amante fissa. Ormai si è abituati a vederli con questa persona, che da clandestina qui dentro diventa ufficiale. Quando si sono aperte le porte dell’azienda alle famiglie, queste relazioni si sono immediatamente, e per un pomeriggio, volatilizzate. Ed il coniuge ufficiale è arrivato a spodestare quello aziendalmente ufficiale, che ha dovuto battere in ritirata, stare con la propria, di famiglia, o addirittura uscire prima. E tutti a fare i complimenti ai figli, o che bella moglie, o che caro marito; ma un po’ ci dispiaceva per quell’altro, quello che alla fine c’è tutti gli altri giorni, a mensa, al caffè, e ci dispiaceva anche per il presente, troppo tranquillo per non essere cornuto. Che poi mi chiedo, ma che senso ha? Se proprio dovessi farmi l’amante, ne cambierei uno il mese, mica mi andrei a impelagare con un altro abitudinario, con gli stessi obblighi, le stesse noiosità, le stesse routine. Che palle!

venerdì 6 febbraio 2009

Facchinaggio & Traslochi

Ho deciso di provare con i fiori di Bach. Spero almeno nell’effetto placebo. Mi dirigo in un’erboristeria specializzata dove qualche settimana prima avevo comprato du’ etti di liquirizia ed espongo la mia necessità. “Va bene amore, adesso te li preparo su misura” mi risponde l’erborista.
Amore?
Nel frattempo entra un omino baffuto che compra uno shampoo anticaduta “Sono otto euro amore”.
Amore?
Comunque la simpatica negoziante mi chiede perché voglio provare i fiori di Bach. “Ecco nella mia vita ho già cambiato 11 case, che fanno 10 traslochi, e sto probabilmente per affrontare l’undicesimo; forse torniamo in Toscana”. Intanto il frullino del mio cervello ripercorre le quattro case cambiate a Livorno, una a Milano, e le sei a Genova, in cui ho dato il meglio di me convivendo con una signora con gravi problemi psichici e poi con una ragazza che amava troppo gli animali, per finire nell’appartamento in cui vivo adesso con la mia famiglia, e che adoro.
Poi mi spiega che i fiori di Bach sono un riequilibratore emozionale. Perfetto, mi sarà utile riequilibrare le mie emozioni. Poi mi riparte il frullino e penso alle doppiette: operatore ecologico, agente monomandatario, gravidanza isterica. Ormai ragioniamo a coppie, illudendoci così di esaurire il significato delle cose. In effetti, alla parola “riequilibratore” mancava il suo compagno, ed “emozionale” ci sta proprio bene. Invece gravidanza isterica non l’ho mai capita. Non è che una che si illude di essere incinta inizia a gridare e strapparsi i capelli; avrei piuttosto detto “gravidanza virtuale” oppure “gravidanza illusoria”.
Mentre parlo e penso la ragazza del negozio entra ed esce da una stanzetta chiusa da una tenda dove su uno scaffale intravedo alcune boccette. Per ogni trasloco, una goccia di questo o di quello.
Alla fine esce inaspettatamente e mi consegna una boccetta. “Amore, chiamami domattina, che ne parliamo”.
Amore?
“Sono 7 euro e 50”.



lunedì 2 febbraio 2009

Ombrelli

Ieri mi sono messa a cucinare, giusto perchè avevamo ospiti. Ho improntato il pranzo su pesce e affini, quindi spaghetti alle cozze (datteri neri in livornese, diversi dai “datteri veri” marroni, oblunghi e rintanati in scogli di tufo a qualche metro di profondità, ormai vietati), insalata di polpo, branzino al forno. Mio marito si aggirava dubbioso scoperchiando pentole e annusando padelle. Finché non ha acceso il TG, che ovviamente parlava di crisi, tagli, recessione e povertà.
L’esame di Economia Aziendale all’università per me è stato piuttosto noioso. Tipicamente mi addormentavo su quel librone azzurro, con rivoli di copiosa bava lungo le pagine. Ricordo benissimo il “Just in time” per evitare inutili scorte di magazzino, che applico ancora oggi, quando ho un appuntamento. Ricordo anche la geniale descrizione che dette un amico dell’economia aziendale “Per me è come la pasta al salmone, ma non quando la mangio, quando devo ripulire la pentola”.
Eppure applicando il principio di conservazione della materia, ne deduco che tutta la ricchezza, tutti i soldi, non possono essere spariti. Saranno pur finiti da qualche parte, ci sarà pure uno stronzo che ride davanti al TG in un salotto carico di dobloni guadagnati o rubati dal settore delle telecomunicazioni, dall’industria automobilistica, dal mercato dell’immobile.
Considerando ad esempio il fatto che piove nevica e fa vento dall’inizio dell’inverno, e che quest’anno ho già perso un ombrello e rotti due, insieme sicuramente ad altri milioni di italiani, che i fabbricanti di ombrelli non mi vengano a piangere miseria sull’uscio. La loro sarà adesso un’industria fiorente: al massimo, posso mandargli un curriculum.