giovedì 20 settembre 2007

Ilva





Ieri mia nonna si è sentita male. È nata nel 1913 a Livorno, ed è stata chiamata Ilva forse a ricordare quello stabilimento siderurgico che ha creato prima tanti posti di lavoro e poi tanto veleno, rovinando un bellissimo tratto della costa toscana. Ilva ha vissuto le due guerre mondiali. Della prima ha un vago ricordo di code per avere un po’ di pane. Della seconda ricorda i bombardamenti sulla città, le corse verso i rifugi con in braccio un figlio (Alfredo) di pochi mesi, il cognato Alfredo catturato in una retata nazista e morto nel forno di un campo di concentramento, il marito portuale che preso dall’ira per questa perdita lancia una brandina addosso ad un nazista e viene mandata a lavorare al porto di Genova. Ricorda quando in una retata sempre i nazisti prendono anche suo marito ed il cugino e quando, dopo pochi giorni, il marito riesce a fuggire insieme al cugino ed a tornare a casa. E poi la vita da sfollati nelle campagne livornesi, ed il rientro in città con la fine della guerra: la casa distrutta, più niente degli averi di famiglia, il negozio di alimentari distrutto, più niente della passata attività.
Reset, ricominciamo da capo, dal niente, solo ricordi.
Adoro mia nonna quando parla di queste cose, e non si fermerebbe mai, a volte i ricordi si accavallano ai nomi ai luoghi ai tempi e scivolano veloci nelle parole. E certo sono passati sessant’anni.
Per lei la guerra non è mai finita. Nel 1989 perde il figlio Alfredo durante una nottata di lavoro al porto, investito da un “fork lift”, un muletto, chiamatelo come vi pare, sempre morte è. Quando questo accade è già vedova, ma la morte di un figlio, quella non si supera. Scampato ai bombardamenti, lo attende un destino amaro quanto quello dello zio nei campi di concentramento. Storie di gente comune costretta a vivere eventi troppo grandi. Ed a superarli.
Per me Ilva è mia nonna, e la amo.
Per l’Italia è la memoria, la storia, la coscienza. Il nostro paese dovrebbe mantenere questi nonni come monumenti parlanti del patrimonio nazionale e curarli come quadri d’autore.

Ieri sera ho chiamato mia nonna, che è a casa e sta bene. Non sono potuta andare a trovarla perchè vivo a Genova per lavoro, come mio nonno quando ci fu mandato per forza. Corsi e ricorsi storici.

“Come stai?” le ho chiesto. “Bene. Ho bussato alla porta lassù, ma nessuno m’ha voluta e allora sono tornata indietro”.



L'immagine ritrae Livorno dopo i bombardamenti anglo-americani, risale al 1946-1947, gentilmente estratta dal sito http://www.prato.linux.it/~lmasetti/antiwarsongs/canzone.php?lang=it&id=749

3 commenti:

Luca ha detto...

Anche io ho una nonna che mi racconta di quel periodo cosi` duro. E ancora adesso non puo` sentire la parola guerra, soprattutto quando la avvicinano a "giusta", "intelligente", e cosi` via.
Per lei e` sempre e solo guerra.

Anonimo ha detto...

La nonna di Veronica da qualche anno e' anche la mia nonna e quando mi inchioda sul divano raccontandomi la guerra inevitabilmente finisce che mi emoziono.
Invece la mia nonna Maria di 93 anni, contadina da sempre, della guerra mi ha sempre raccontato del maiale ammazzato e nascosto per non farlo mangiare ai nazisti. Conoscendo il mio babbo, le mie zie, il mio nonno e la mia nonna quel maiale se lo saranno mangiato tutto in una settimana. Anche al mio nonno Agrasto non gli piaceva la guerra, infatti per farsi scartare alla visita per l'arruolamento si e' fumato 3 sigarette copn lo zucchero che gli anno fatto venire il palletico..

Tittera ha detto...

Da adulta ho conosciuto solo tre nonni che però non mi hanno mai raccontato niente della guerra. Ho sempre pensato che le parole a volte riportino alla memoria ricordi troppo difficili da sopportare, forse alcuni non se la sentono, non ce la fanno a parlare e preferiscono cacciare via i ricordi subito appena affiorano.

Io mi ci son commossa è un filmato di un bombardamento a Livorno